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di Atlante
“Siamo tutti un po’ vegani” – Intervista a Natasha Linhart su Internazionale
2 Febbraio 2021
I prodotti vegan sono entrati anche in Italia ormai nella distribuzione organizzata e non c’è più necessità di cercarli in negozi specializzati e alternativi. Secondo le indagini di mercato Nielsen nel 2019 l’insieme del prodotti vegetariani e vegani sono cresciuti del 4,5% rispetto all’anno prcedente, e la componente principale è quella vegana.
Natasha Linhart, CEO di Atlante srl e fondatrice del marchio Vegamo, spiega che i surrogati della carne o del formaggio non sono rivolti ai vegani, ma “sono rivolti a persone che cercano cibo di qualità e buon livello nutritivo ma con meno grassi. Oppure a coloro che rifiutano gli allevamenti intensivi, o che vogliono avere la coscienza a posto circa l’ambiente, senza rinunciare ai sapori abituali”. Ci si rivolge infatti ai consumatori flessibili, gli onnivori che decidono di avere meno prodotti animali all’interno delle loro dieta. Nel mondo anglosassone sono stati definiti flexitarians, flexetariani.
Siamo tutti un po’ vegani
Martina Forti, giornalista da Internazionale
Nel carrello si ammucchiano buste di affettati, polpette, burger. Una bistecca sotto vuoto. Wurstel. Poi formaggi, creme, yogurt, latte. Tipica spesa da supermercato, tutto confezionato con cura, marchi e tabelle nutrizionali ben in vista. Tutto pronto per finire in padella, se non direttamente nel piatto. Solo che affettati, burger, formaggi e tutto il resto non sono ciò che il nome suggerisce, ma prodotti al cento per cento di origine vegetale: senza traccia di latte, uova o qualunque ingrediente di origine animale.
Anche in Italia i prodotti “vegan” sono entrati nella grande distribuzione organizzata. Non è più necessario cercarli in negozi specializzati e vagamente alternativi. E non sono più necessariamente cibi della cucina orientale come il tofu e altri derivati della soia, arrivati in occidente trenta o quarant’anni fa con le prime diete vegetariane e macrobiotiche. Sui banchi dei supermercati ormai c’è una nuova generazione di “surrogati”: prodotti che sembrano carne, ma non lo sono, sanno di formaggio, ma non nascono dal latte.
“Il cibo vegano è diventato mainstream”, osserva Albino Russo, direttore dell’ufficio studi della Coop. È successo negli ultimi dieci anni. Secondo la società di indagini di mercato Nielsen, che studia i comportamenti dei consumatori incrociandoli con le informazioni riportate sulle etichette dei prodotti che acquistano, nel 2019 l’insieme dei prodotti vegetariani e vegani rappresentava il 5,3 per cento del valore delle vendite della grande distribuzione organizzata, il 4,5 per cento in più rispetto all’anno prima, e la componente principale è quella vegana. Una nicchia, certo, ma significativa. Anche perché “sono i prodotti che crescono più in fretta”, aggiunge il dirigente delle Coop, “e l’industria alimentare se n’è accorta”.
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Il vegano a tempo parziale
Ma perché una persona che rifiuta la carne dovrebbe cercare qualcosa che le somiglia? In effetti l’industria del cibo surrogato non si rivolge ai vegani. Anzi: “Quei burger che sembrano sanguinare fanno impressione a uno convinto della sua scelta, proprio perché somigliano alla cosa vera”, osserva Natasha Linhart, fondatrice e amministratrice delegata del gruppo Atlante, che esporta alimentari di qualità italiani nel Regno unito, negli Stati Uniti e in Asia (ma non commercia carne, tiene a precisare). Qualche anno fa Linhart ha creato il marchio Vegamo per far produrre e distribuire cibi a base vegetale in alcuni grandi supermercati italiani. Secondo lei quei burger surrogati mandano un messaggio ambiguo, “come dire che rinuncio alla carne ma in realtà la vorrei”.
I surrogati della carne o del formaggio però “sono rivolti a persone che cercano cibo di qualità e buon livello nutritivo ma con meno grassi. Oppure a coloro che rifiutano gli allevamenti intensivi, o che vogliono avere la coscienza a posto circa l’ambiente, senza rinunciare ai sapori abituali”, dice Linhart. Del resto, l’industria dei surrogati usa poco il termine “vegano” e preferisce plant based, a base di piante. Si rivolge ai cosiddetti consumatori flessibili, gli onnivori che preferiscono meno prodotti animali nella loro dieta. Nel mondo anglosassone sono stati definiti flexitarians. Albino Russo parla di “vegani part time”, che alternano prodotti vegani e non.
I produttori di surrogati puntano proprio a loro. “Il nostro target sono i flexi”, dice Roberto Grimoldi, direttore commerciale di Biolab. “Ci siamo limitati a seguire lo sviluppo del mercato”, spiega. “Le multinazionali del burger surrogato hanno creato un mercato nuovo, e noi l’abbiamo seguito. E se sul burger siamo andati al traino, con gli affettati abbiamo innovato”. Si tratta di una combinazione di soia, cereali, semi oleaginosi, addensanti, e aromi naturali, tagliati in modo da ricordare bresaola, carpaccio, roastbeef. L’azienda di Gorizia distribuisce burger e affettati in vaschette pronte in alcuni grandi supermercati italiani e in una catena specializzata in prodotti bio; esporta anche in vari paesi europei, “ma dobbiamo fare a gomitate con le multinazionali”, dice Grimoldi. “Anche in questo non facciamo che seguire il mercato”, spiega Santinelli. “Il consumatore passa sempre meno tempo in cucina, rispetto anche solo a vent’anni fa. Forse la pandemia ha un po’ cambiato le cose, ma sul lungo periodo la tendenza è questa. Il tempo ‘risparmiato’ in cucina lo riempie l’industria alimentare con le confezioni di affettati pronti, i cibi precotti, verdure già lavate, minestre e zuppe da scaldare in pochi minuti”.
Oggi la Biolab occupa il sito di un ex mattatoio chiuso una ventina d’anni fa: “L’abbiamo comprato all’asta fallimentare nel 2016 e ristrutturato”, racconta Santinelli. “Dove prima soffrivano gli animali ora lavoriamo soia e spinaci. Una sorta di riscatto”.
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